Il Maggio e il grano

Dino e Franco
Rimanendo in tema di gioventù e divertimento, un paragrafo a parte deve essere dedicato al “Maggio” ed alle simbologie che bene illustrano lo stretto rapporto tra l'uomo e la Natura. Il “Maggio” nella cultura contadina è un rito importantissimo di comunione con la natura; durante questo periodo l'uomo diventa messaggero della fertilità e della benevolenza della campagna. Ancora oggi in alcune zone dell'Appennino ligure e tosco-emiliano piccoli complessi vocali e strumentali visitano le case dei paesi cantando appunto il “Maggio”, entrando e uscendo dalle porte aperte, accolti con vino e cibarie, attesi come una pagana benedizione. Sui monti di mia madre, al tempo della sua gioventù, il “Maggio” veniva celebrato con un rituale veramente divertente e ricco di simbologie: notte tempo i giovanotti  raggiungevano le finestre delle ragazze addormentate e , dopo una preventiva sosta nei boschi per procurarsi il necessario, appoggiavano ai muri delle case lunghi rami o pali su cui svettavano fronde la cui specie non era scelta a caso; così il mattino dopo , quando la giovane apriva la finestra, trovava rami di ciliegio se era bella e onesta, ontano se era “poco seria“ e cavoli in fiore se era zitella. Delle ragazze che ricevevano i cavoli si diceva che erano rimaste “su u ciantà“ cioè che come i cavoli avevano finito la fioritura e non erano più adatte alla raccolta. Nessuna delle ragazze dei monti ricevette mai rami di ontano; il mattino dopo era consuetudine chiamarsi da una casa all'altra per scambiarsi informazioni su cosa si fosse trovato alla finestra.

Anche il grano era motivo di grande festa, oltre che di lavoro, per grandi e bambini. Si cominciava con l'arare i campi avvalendosi della forza motrice degli animali; in un primo tempo veniva un uomo da Sesta Godano con due mucche, successivamente il lavoro fu affidato ad un altro signore di nome Franco, proveniente dal monte Albereto. Mia madre ricorda perfettamente l'arrivo solenne dei due buoi di razza chianina, enormi, dal manto chiaro, che procedevano mastodontici dondolando le lunghe corna. Rimanevano a lavorare per circa tre giorni, ricoverati nella stalla sotto la casa alla fine della giornata. Mia madre dice che era uno spettacolo vedere Franco che li accudiva, asciugandone il sudore, ricoprendoli con coperte e rifocillandoli amorevolmente. Ricorda anche con raccapriccio che una volta era arrivato un uomo ad arare con una mucca vecchia e sfinita. La videro iniziare il suo lavoro faticosamente e poi crollare sulle zampe posteriori, talmente stanca da non riuscire a reggersi. Allora il suo scellerato padrone appiccò il fuoco ad alcuni rami e glieli fece scivolare sotto la pancia, per costringerla a rialzarsi. A quel punto mio nonno cacciò in malo modo quell'uomo senza cuore dicendogli di non farsi mai più rivedere.

Bruna, sua cugina Ivana, Ettore (papà), Patrizio e..?
  
Quando le piantine erano ad un palmo da terra o poco più, si procedeva alla sarchiatura del terreno, per estirpare le erbe infestanti, con una zappetta. A volte capitava che la terra si accumulasse un po' attorno al gambo, allora Giuditta sentenziava “Marsu croevime u soccu e u carsu!” tranquillizzando i meno esperti. La seconda sarchiatura avveniva a primavera inoltrata; allora si dovevano lasciare le piantine libere di crescere e Giuditta ricordava a tutti questa necessità dicendo “Arvì, lascime vegnì!”.Ai primi di luglio, poi, prima della mietitura, si ripassavano i campi ancora una volta , così da permettere il taglio delle spighe anche durante le estati più torride, dando luogo ad una delle esperienze più belle che mia madre ricordi e rimpianga: la mietitura notturna.

"...Si cominciava la sera, dopo cena, verso le otto. Si usciva di casa che la terra era ancora tiepida e rimandava verso il viso il calore accumulato durante il giorno. Lentamente si raggiungevano i campi di grano e si cominciava a mietere, sotto la luce della luna che spiccava nel cielo limpido, dorata come le spighe. L'aria man mano si faceva più fresca e gradevole ed il ritmo del lavoro aumentava, scandito dal baluginio delle falci affilate e dai canti montanari. Un'atmosfera irreale avvolgeva quella scena, mentre la fatica diventava soddisfazione e la frescura della notte contribuiva a far scendere nell'animo una serenità che non ho mai più provato...” Così lo ricorda mia madre, come una magia della sua gioventù... e ride mentre mi dice che qualcun altro fu convinto, per un po', che il grano dei Medone fosse “stregato”: Adamo, il fratello di Amelia, dalla “Nevea“ vedeva i campi di grano, splendenti sotto il sole, vuoti delle spighe il mattino dopo, e non riusciva a spiegarsi come!Con la luce del giorno si individuavano chiaramente le poche spighe sfuggite al taglio notturno, allora entravano in azione i bambini; i grandi dicevano loro di raccogliere le spighe in mazzetti: chi ne faceva di più meritava in premio un panino fresco ricoperto di zucchero, un premio molto ambito che ha addolcito spesso le estati di mia madre bambina. Un altro momento in cui era fondamentale la partecipazione dei piccoli e degli adolescenti era la raccolta della paglia, dopo la “battitura“ del grano. La paglia veniva stivata nella cascina, poco sotto la casa: quasi all'altezza del tetto c'era un'apertura dove uno degli uomini venuti ad aiutare infilava la paglia con un grosso forcone di legno; dentro la cascina i bambini saltavano sulla paglia, ridendo come matti, divertendosi a rotolare gli uni sugli altri e compattando la paglia in modo ottimale. Quando tutto il lavoro legato al grano era finito, era consuetudine cuocere lo stoccafisso per il pranzo, mentre la sera dell'ultimo giorno di battitura si preparava il minestrone. Questo accadeva ogni anno, ogni estate sui monti: genti di “Pistone“, di “Parodi” e della “Cappelletta”si davano appuntamento alla casa di mia madre e poi a turno alle loro rispettive case; era un lavoro collettivo, basato sulla solidarietà e sull'onestà, un aiuto gratuito e certo, che non aveva bisogno di essere reclamato perchè era naturale ed implicito nella cultura contadina, e con la stessa naturalezza veniva imparato dai figli, che vivevano senza saperlo una condizione privilegiata di armonia tra gli esseri umani che la società di oggi, pur troppo, non può neppure immaginare.
                         

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