La gioventù




La gioventù è una potente medicina: cura le ferite più dolorose, anche quelle lasciate dalla guerra. Sui monti la vita riprende dopo gli anni faticosi e cupi , che adesso sono sempre più sbiaditi e confusi. Ritornano i giorni dell'allegria e della spensieratezza, gli scherzi con gli amici, i balli e le feste sull'aia, ritorna la vita...




I bei ricordi


Bruna e Manduin
Dal 1950 al 1958 ca. più di cinquanta giovani, di età compresa tra i 15 e i 20 anni, abitavano nei casolari del Bardellone. Erano così affiatati che la domenica nessuno di loro scendeva a Levanto per divertirsi. Più tardi quelli che si erano fidanzati con ragazze di Levanto o dei paesini alle sue spalle - Montale, Dosso, Lavaggiorosso,Groppo- scendevano dai monti per il divertimento domenicale. I giovani dei monti avevano come punto di ritrovo uno spiazzo ampio ed aperto in un luogo chiamato "Fusarin", situato in una posizione ottimale per essere raggiunto da tutte le pendici dei monti circostanti.
Manduin  portava il grammofono e si organizzavano balli di gruppo, molto amati, che i giovani dei monti chiamavano la contradanza.Era sicuramente una versione riveduta dell'antica contredanse francese, derivata da un ballo popolare di piazza nato in Inghilterra nel XVII° secolo chiamato country dance.Manduin svolgeva il ruolo del caller, ossia colui che chiamava le coppie in ballo e comandava le figure di danza da eseguire, figure dai nomi rigorosamente francesi.
Mia madre ricorda con immutato divertimento e partecipazione quei balli spensierati in cima ai monti, l'aria fresca dei boschi che portava profumi di fiori e fieno e tutta quella gioventù sana e felice che si affacciava alla vita con speranza e voglia di fare.



Luciana
Per il ferragosto, invece, veniva un ragazzo di Cassana di nome Ugo a suonare la fisarmonica ed allietare la festa che si svolgeva soprattutto alla “ Cappelletta “. Mia madre ricorda che nessuna delle ragazze disponeva di scarpine da ballo, l'unica concessione all'eleganza erano delle scarpe di tela di vari colori che, specie in estate, sostituivano i più comuni scarponi da montagna. Mia madre stessa andava spesso a ballare indossando  quelli di sua madre che erano nuovi e in condizioni perfette. Durante il Carnevale era consuetudine travestirsi con abiti vecchi e fuori taglia ed andare alla “ Vurpoia “ da Natalin a fare scherzi e a ballare. Nei ricordi di mia madre c'è nitido il pavimento della sala in casa di Natalin, tra le cui mattonelle un po' instabili si incastravano spesso i chiodi degli scarponi del padrone di casa, che sottolineava sempre l'episodio con colorite esclamazioni irripetibili.

Anche le fiere erano importanti occasioni di divertimento e di socializzazione. Esisteva inoltre una simbologia legata al corteggiamento e ai riti del fidanzamento e del matrimonio, che i giovani conoscevano bene e a cui davano una certa importanza: ad esempio acquistare collane di noccioline, dette “ reste “, in numero esagerato fino a ricoprire collo e braccia di una ragazza desiderata in sposa, significava dichiarare pubblicamente l'esistenza di un impegno sentimentale.
Quando c'era la fiera ( ad esempio a Brugnato) le ragazze, che come mia madre avevano risparmiato qualche decina di lire vendendo ricotte o funghi alle ricche famiglie di Levanto, partivano tutte contente   di poter comperare qualche cosa tutta per loro. Passeggiavano tra le moltissime bancarelle, dove  si poteva trovare veramente qualsiasi cosa, sotto lo sguardo indagatore delle madri o delle zie, sotto gli occhi  sorridenti dei giovanotti e si divertivano ad essere ammirate o salutate. Alla fiera era d'uso sgranocchiare frutta secca o lupini salati, mangiare torte salate o affettati e bere vino nostralino. Verso sera si faceva ritorno a casa a piedi, di nuovo risalendo crinali e percorrendo coste e mulattiere, magari utilizzando i punti dove nei giorni lavorativi si appoggiavano i carichi ( le “pose”) per fermarsi a riposare qualche minuto. Qualche volta mia madre riusciva davvero a mettere da parte un piccolo capitale, vendendo le ricotte giù a Levanto e spesso preferiva spendere il suo piccolo tesoro acquistando un panino bianco ripieno di tonno, che poi consumava con soddisfazione quando arrivava in una località, lungo il cammino di ritorno, chiamata “le fontane”, oppure un nuovo paio di scarpette di tela in un negozio di Corso Roma,da sfoggiare la domenica.  
                    
Franco e Renata a Soviore

Un' altra occasione di divertimento erano le feste religiose  che si svolgevano nei paesi intorno: la Madonna di Roverano l'8 di settembre e la Madonna di Soviore erano le più venerate e si partecipava alla festa in loro onore raggiungendo i Santuari con veri e propri pellegrinaggi. Mia madre ricorda con nostalgia quelle lunghe camminate seguendo le mulattiere in mezzo ai boschi e lungo i crinali dei monti, ricorda il continuo passaggio di pellegrini e muli, ricorda suo padre che andava ogni tanto a risistemarne i sassi divelti dagli zoccoli, insieme agli altri abitanti di quelle zone. Spesso ripete che allora le mulattiere erano pulite e sicure, anche se passavano in mezzo alla vegetazione e se dopotutto coprivano percorsi piuttosto isolati. Però c'era tra le persone una mutua e silenziosa collaborazione, si conoscevano i due o tre tipi poco raccomandabili, ci si aiutava a vicenda e tutti, grandi e piccini, si spostavano sulle coordinate di una rete di informazioni ed assistenza che non aveva nulla da invidiare al web. In occasione di queste feste, come anche del ferragosto, si preparavano torte di riso e tegami di carni al forno, lasagne col sugo di funghi e i “ravacoi”, la “ bruciatella “ che era la vera specialità di mia nonna Maria. Al tempo delle patate novelle Maria preparava tegami colmi di “ patatin “ sbucciati a foggia di funghetto, ossia ricavando un finto gambo e lasciando la buccia per simulare il cappello del fungo.
                                                       

Per il ferragosto era consuetudine la visita, con relativo invito a pranzo, del padrone con tutta la famiglia. Il signor Natale Schiaffino era un uomo molto buono ed onesto; mia madre ricorda molto bene che dopo la razzia delle camicie nere fu molto comprensivo con suo padre e gli concesse tutto il tempo di cui aveva bisogno per recuperare con il lavoro la parte di raccolto che il contratto di mezzadria prevedeva gli venisse versato. Il signor Natale , per la festa di Maria Assunta,  portava in dono una barrique del suo vino migliore, non mancando di complimentarsi con mia nonna Maria per le sue fresche tovaglie di lino, i suoi grembiuli immacolati e i suoi fragranti manicaretti che profumavano l'aria intensa dell'agosto sui monti. Uno dei suoi figli , Lino, durante l'estate si fermava volentieri qualche giorno presso la famiglia di mia madre, a riposarsi e respirare la serena atmosfera di quella famiglia. Una volta, mia madre ricorda, andarono insieme ad accompagnare le pecore ai pascoli, ma lungo la strada del ritorno Lino cadde malamente su una caviglia, slogandola. A quel tempo era già medico e la diagnosi fu rapida ed esatta; così tornarono a casa rapidamente e lui decise di proseguire da solo fino a Casella, dove era la villa di famiglia. Mio nonno insistette molto per accompagnarlo, ma inutilmente. L'unico aiuto che accettò fu uno scarpone per ingessature, appartenente allo zio Angiulettu, che indossò prima di partire salutando tutti col suo sorriso gentile: mio nonno lo seguì a distanza fino a "Muntecian" per essere sicuro che nulla gli accadesse.                                                                                                                                                                                                                        
Arturo
La casa di mia madre, la “Cappelletta” dove abitavano i suoi cugini, tra cui Manduin, e “Pistone” dove viveva Arturo con la sua famiglia erano in stretto collegamento tra loro: sia perché vicini , sia per i vincoli di parentela e di solidarietà che si manifestavano continuamente durante l'anno. Fra queste tre famiglie c'era la piacevole abitudine serale della “veglia”: dopo aver recitato il rosario ci si recava quasi tutte le sere a casa di uno o dell'altro, per giocare a carte o “ all'omino nero” e chi perdeva a quest'ultimo gioco era costretto a tingersi il viso con la fuliggine del coperchio della stufa a legna... sono indimenticabili i trucchi e i maneggi di Arturo per evitare di sentirsi dire “ vegni che te tinzu!”. A mezzanotte si rientrava a casa e con mia madre c'era quasi sempre suo zio Silvio, un uomo straordinario sulla cui vita difficile ed emblematica si potrebbe scrivere un libro. Con lui mia madre percorreva sicura la strada nel cuore della notte, nessun rumore o verso improvviso di animale poteva turbarla: anche il bosco era casa.
    
                           
  
                                                                                                                                                                                                                                                       

Nessun commento: